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Aragona è un piccolo comune siciliano situato alle pendici orientali del monte Belvedere nota soprattutto per le Maccalube, il bizzarro fenomeno pseudo-vulcanico che caratterizza la zona.

Aragona nasce con la "licentia populandi" il 6 gennaio 1606 grazie a Baldassare III Naselli Infatti, il giovane conte del Comiso, don Baldassare III Naselli, presentò la domanda di fondazione di un nuovo villaggio da fabbricarsi nel suo feudo di Diesi nel settembre 1604, al viceré Lorenzo Suarez, il quale ordinava che si facessero accertamenti sul merito. Il nuovo villaggio, verrà chiamato come la madre del fondatore: donna Beatrice Aragona Branciforti.

Nel 1615, il casale passò nelle mani del nobile feudatario Luigi Naselli, che ottenne il titolo di principe di Aragona dall’imperatore Filippo IV. I Naselli governarono il paese di Aragona sino al 1812, anno in cui fu abolito il feudalesimo. Nel periodo risorgimentale la cittadina partecipò agli avvenimenti sia del 1848 sia del 1860, accogliendo lo sbarco garibaldino. Coinvolta dalla seconda guerra mondiale, fu teatro di lotte e rivendicazioni degli zolfatai fino alla chiusura delle miniere, con conseguente massiccia emigrazione.

Tra le testimonianze storico-architettoniche degne di nota sono: il Palazzo Feudale, la chiesa della Mercede, costruita nel 1623, al cui interno sono custodite pregevoli opere d’arte e notevoli dipinti, la chiesa del Carmine, che conserva una statua lignea di Salvatore Bagnasco, la chiesa madre, edificata nel XVII secolo, al cui interno si conserva un presepe del Settecento.

Poco lontano dal centro abitato ci sono le zone archeologiche di contrada Fontanazza e di contrada San Vincenzo, con reperti di epoca romana. La patrona è la Madonna del Rosario, ma sentita è la festa in onore di S. Vincenzo, che preannuncia il passaggio dalla stagione estiva a quella autunnale.

Il territorio, ricco di mandorleti, uliveti, alberi di pistacchio, ortaggi, legumi, è la risorsa economica più importante. Come già accennato, Aragona è conosciuta per il fenomeno dei vulcanelli di fango, il Macalube: L'Occhiu di Macalubi ha da sempre esercitato un grosso fascino sulla popolazione locale e sui viaggiatori stranieri e nel corso dei secoli il luogo ha ispirato numerose leggende.

Fra i visitatori più famosi, ricordiamo Guy De Maupassant, giunto nel sito nel 1885 durante una tappa di uno dei suoi viaggi.

Ubicata a 15 km da Agrigento, la Riserva naturale “Macalube di Aragona”, nei territori comunali di Aragona e Joppolo Giancaxio (AG), è stata istituita al fine di preservare la rarissima presenza dei “vulcanelli di fango freddi”, citati nelle letteratura scientifica di tutti i viaggiatori stranieri venuti in Sicilia tra il 1700 e il 1800.

Gli abitanti della zona la chiamano l' Occhiu di Macalubi,  in ragione della sua forma circolare che da sempre ha esercitato un grosso fascino sia sui viaggiatori stranieri che sulla popolazione locale.
Le più antiche testimonianze dell'area si hanno grazie a Diodoro Siculo e Plinio il Vecchio.

Il termine “macalube”, con cui viene definito in geologia il fenomeno, ha probabilmente origini arabe, dal termine “maqlùb” che significa ribaltamento, rovesciamento.

Nel corso dei secoli il luogo ha ispirato numerose leggende: secondo una di queste i fenomeni eruttivi dell'area sarebbero iniziati nel 1087, a seguito di una sanguinosa battaglia tra Arabi e Normanni: il liquido grigiastro sospinto dall'attività eruttiva fu così ribattezzato “Sangu di li Saracini” il sangue dei Saraceni.

Un'altra leggenda vuole che un tempo nell'area sorgesse una città, e che un giorno, a causa di un'offesa fatta alla divinità locale, la città fosse stata sprofondata nelle viscere della terra sommersa proprio dal fango dei vulcanelli.

Guy De Maupassant, giunto nel sito durante un viaggio in Sicilia nel 1885 descrisse i vulcanelli di fango come "pustole di una terribile malattia della natura”.

Leggende a parte, è indiscutibile la rarità del Macalube, caratteristica di assoluta unicità.

La Riserva infatti nasce per tutelare un particolare fenomeno geologico, analogo a quello vulcanico. I gas delle Macalube sono costituiti essenzialmente da metano con basse concentrazioni di anidride carbonica, di elio ed altri elementi.

Per effetto della pressione, questi gas sfuggono dal sottosuolo, trasportando con sé sedimenti argillosi ed acqua che una volta fuoriusciti in superficie danno vita ad un cono di fango, dalla cui sommità, attraverso un cratere fuoriesce il gas. Queste eruzioni esplosive, scagliate a notevole altezza, danno vita ad un vero spettacolo della natura.

Purtroppo, l'area delle Macalube non è visitabile e sono ammessi solamente esperti e studiosi che visitano l’area per interventi a carattere scientifico e di ricerca.

Il territorio della Riserva è stato suddiviso in due diverse aree in funzione delle caratteristiche ambientali e dei diversi obiettivi gestionali:

La zona A, ha un estenzione circa 93 ettari, è l’area di più rilevante importanza poiché legata alla presenza dei vulcanelli di fango, è interdetta alla fruizione turistica ed è riservata alle attività di conservazione e di ricerca scientifica.  

Le restanti zone invece, hanno un’estenzione di circa 163,45 ettari, sono delle “aree cuscinetto” a vigilanza della zona di massima tutela.

Può sembrare strano, ma nonostante la forte aridità del clima, specie nella stagione estiva, e l’esistenza di rocce poco permeabili, tipiche di questa porzione della Sicilia, determinano in modo rilevante la vegetazione, costituita essenzialmente da piante erbacee, maggiormente rappresentate da graminacee perenni e vegetazione spontanea.

All’interno di queste formazioni vivono diverse specie erbacee di notevole interesse scientifico, la Scabiosa dichotoma, detta Vedovina siciliana. Sono presenti nell’area specie endemiche e per questo tutelate dalle direttive europee poiché vulnerabili come : l’Allium lehmannii pianta presente solo in Sicila e Tunisia; l'Aster sorrentinii, e la Lavatera agrigentina; il Lygeum spartum, specie rara che si trova solamente al Sud, e dagli arbusteti caratterizzati da specie legnose succulente come la Salsola agrigentina.

La riserva è stata inclusa nell’omonimo Sito di Importanza Comunitaria per la presenza di habitat prioritari e di specie di interesse biogeografico e/o conservazionistico della flora, tra cui diverse specie di orchideeOphrys bertolonii,  Ophrys bombyliflora, Ophrys lutea, Ophrys sphecodes, Ophrys tenthredinifera.

L'esistenza di piccoli stagni che creano ambienti umidi sono di importanza cruciale poiché  favoriscono lo sviluppo della fauna entomologica, la riproduzione degli anfibi, il Discoglosso dipinto e la Rana verde, detta rana di Lessona, nonché la presenza di vari rettili.

Sono ivi presenti libellule, insetti e coleotteri acquatici, e di una consistente popolazione di rettili, come la lucertola siciliana, il gongilo, detto “guarda uomini” o “cicigghiune” in dialetto siculo,  e i rettili non velenosi: saettone, ed il biacco.

Gli specchi d’acqua, oltre a facilitare la riproduzione di varie specie predatrici appartenenti al mondo degli insetti, sono anche luogo di caccia di numerose specie di uccelli come il Falco di paludeFalco tinnunculus, meglio conosciuto come Geppio.

Area di cruciale importanza durante i periodi di migrazione, i volatili trovano in queste piccole “oasi”  dei ristori che permettono loro di recuperare le forze necessarie per riprendere in seguito il lungo viaggio.

La presenza di specie animali di interesse biogeografico e/o conservazionistico, tra cui la lepre italica, vari passeriformi, la calandrella comune.

La presenza di una così vasta presenza faunistica e floreale in un luogo apparentemente ostile  ha permesso di classificare l’area di riserva come Sito di Importanza Comunitaria, Ente Gestore: Legambiente - Comitato Regionale Siciliano.

La Macalube inoltre, ricade inoltre nel “Sito Natura 2000”, una rete di siti di interesse comunitario speciale creati dalla Comunità Europea, per la presenza di habitat prioritari e di specie di interesse biogeografico e/o conservazionistico della flora e della fauna rare o uniche nel loro genere.

La Riserva naturale Foce del fiume Platani è stata istituita il 4 luglio 1984 dalla Regione Siciliana "Per garantire la conservazione della popolazione ornitica, favorire la ricostituzione della macchia mediterranea, delle associazioni alofile e delle dune".

La riserva è costituita da una vasta superficie, 206 ettari circa che interseca: la foce del fiume Platani, e si estende nei territori di Ribera e Cattolica Eraclea (AG). L'oasi lambisce il promontorio di Capo Bianco, sede dell'antica città greca di Eraclea Minoa.

Il fiume Platani è uno fra i più importanti della Sicilia: anticamente chiamato Alico (Halykòs, salato in greco), è uno dei più importanti corsi d'acqua della Sicilia.

Attraversa le province di Palermo e Agrigento, segnando anche il confine tra quest'ultima e quella di Caltanissetta. Il fiume nasce dalla confluenza del Platani di Lercara e del Platani di Castronovo.

Lungo la sua spinta verso il mare, il Platani riceve le acque di molti affluenti tra i quali fiumi il Turvoli, Gallo d’Oro, il Vallone Tumarrano, il Vallone Morella, il Vallone di Aragona.

La  vegetazione è costituita da una pineta in cui si inseriscono anche degli eucaliptoacacie.  Il sottobosco è florido, con specie della macchia mediterranea, in particolare dell’ asparago spinoso (Asparagus acutifolius), della palma nana siciliana (Chamaerops humilis),  e carrubo. Molte specie erbacee e arbustive colonizzano e favoriscono la formazione delle dune le quali proteggono la vegetazione dalla salsedine e dai forti venti.

Lungo tutta la foce abbonda la cannuccia di palude, che può raggiungere anche i 4 o i 6 metri di altezza, mentre tra le specie caratteristiche delle dune vi sono: lo zigolo delle spiagge (Cyperus capitatus), la gramigna delle spiagge (Agropyron junceum), il giglio di mare (Pancratium maritimum), lo sparzio pungente (Ammophilla littoralis), il giunco, l'erba kali (Salsola kali), la calcatreppola, pianta spinosa che cresce anche nelle dune sabbiose, il vilucchio marittimo, pianta rampicante dai graziosi fiori campaniformi violacei,  e il ravastrello (Cakile maritima).

La foce del fiume Platani è un luogo di incantevole bellezza naturalistica. Quest'area rappresenta il primo approdo per molti uccelli migratori provenienti dall'Africa, offre rifugio ad una flora rigogliosa e variegata, grazie alla diversificazione degli ambienti.

Tra le specie che sostano o vi abitano perennemente troviamo:  l'Airone cinerino, la folaga il cavaliere d'Italia, l'Avocetta, il Fratino, il Falco di palaude, il pendolino passeriforme caratteristico per il suo nido a forma di bisaccia.

Il Platani, dopo un lungo percorso di 110 km, sfocia nel mare in prossimità di Capo Bianco una splendida falesia costituita da marna calcarea che domina sulla riserva.

Il Platani, infatti, non è solo una risorsa ambientale di pregio, ma rappresenta anche un riferimento storico - archeologico di grande valenza.

La valle del Platani è stata culla di antiche civiltà, che risalgono addirittura al periodo Neolitico: i Sicani, popolo che praticava l’agricoltura e la pastorizia, ed abitavano in piccole comunità nei luoghi che la natura rendeva di difficile accesso come le colline e le alture.

Essi si insediarono nella valle del Platani sia per la presenza del fiume,  navigabile fino all’età romana, sia per la presenza del sale lungo le pendici della valle, il quale rappresentava un ottimo prodotto di scambio commerciale.

In uno di questi luoghi la leggenda vuole ambientata la vicenda di Dedalo che fuggito da Creta, dopo aver progettato la costruzione del famigerato labirinto, arrivò in Sicilia e fu ospitato dal re sicano Cocalo.

La spiagge della Foce del Fiume Platani sono state consigliate dalla Guida Blu di Legambiente, sono splendide e tranquille, adatte a chi ama la calma e il silenzio.

 

Una piccola frazione di Cattolica Eraclea, chiamata Eraclea Minoa, se pur composta da qualche casa e qualche stradine, è molto famosa ed il luogo ha molto da offrire, da un punto di vista sia culturale che naturalistico.

Varie ipotesi sono state fatte sull’origine del nome Minoa: dai greci che colonizzarono il luogo e provenivano dall’isola greca di Minoa o dai selinuntini che la conquistarono; oppure alla leggenda secondo cui, il Minosse, re cretese, avrebbe inseguito Dedalo fino in Sicilia per punirlo del tradimento subito; Minosse avrebbe poi trovato la morte proprio per mano dello stesso re sicano Kokalos, il cui regno era forse ubicato lungo le rive del fiume Platani.

Eraclea, invece, venne aggiunto in seguito in onore al semidio Eracle, eroe della mitologia greca figlio di Zeus e della mortale Alcmena, il cui culto era molto sentito.

Ubicata sul confine fra le aree di influenza dei Greci e dei Cartaginesi, fu contesa e colonizzata sia dagli uni che dagli altri. Passò anche sotto il dominio di Akragas, finché nel 132 a.C. fu conquistata dai Romani ad opera di Publio Rupilio .

La città viene citata da Cicerone nelle Verrine  tra le civitates decumanae della Sicilia romana..

Nel I secolo a.C. fu abbandonata, forse in seguito ad un cedimento del terreno che trascinò in mare la parte sud dell'abitato e delle mura che la circondavano.

Dal I secolo a.C. l’archeologia registra un lungo abbandono e una nuova urbanizzazione soltanto nel V-VI secolo d.C. con la costruzione di una basilica funeraria. La città raggiunse l'apice del suo sviluppo urbanistico in epoca ellenistica.

Gli scavi, iniziati negli anni ’50 del secolo scorso, hanno messo in luce, oltre alle mura in parte visibili, anche i resti della cinta muraria della lunghezza stimata di circa 6 chilometri e otto torri quadrate.

Troviamo anche il teatro, la necropoli e l’abitato, con costruzioni risalenti a due fasi: una del IV-III secolo a.C. e l’altra del II-I secolo a.C.

Nei documenti la città è ricordata con tre nomi differenti: Macara, l'Eracle fenicio; Minoa, fondata secondo la leggenda dal re di Creta Minosse che fin qui aveva inseguito Dedalo; infine, Eraclea, colonia spartana. 

Di grande interesse sono: il teatro, costruito alla fine del V secolo a.C., divisa in nove settori a dieci gradoni e si apre verso il Mare Mediterraneo ; gradini con conci di arenaria, e per altri, soprattutto per i gradoni delle mura di testata, con conci di marna.

L’ Antiquarium, piccolo ma ricco, custodisce i reperti trovati nelle abitazioni e nella necropoli: memorandum in ceramica figurata alle piccole statuette votive in terracotta,  dalle anfore, ai vasi e brocche, suppellettili vari risalenti anche ai secoli antecedenti l’avvento di Cristo e le già citate conquiste.

Tutto racconta di Eraclea e ciò che fu un tempo.

Eraclea Minoa è posta nel territorio del comune di Cattolica Eraclea in prossimità del fiume Platani (antico Alico); la zona oggi prende il nome di Capo Bianco.

Scendendo dal promontorio, ci si può perdere sui litorali che lo costeggiano e nella “Riserva Naturale Foce del Fiume Platani”, che dal territorio di Cattolica Eraclea arriva fino a Ribera.

Ad Eracle Minoa e nelle immediate vicinanze vi è davvero tanto da vedere.

La spiaggia è fine e dorata, su di essa si affaccia una folta pineta e un affascinante promontorio bianco. Su quest’ultimo si trova  un piccolo teatro greco ed importanti reperti archeologici d’epoca greca e romana.

La Sicilia, la bella isola che spicca nel Mediterraneo, ricca di tesori, arte e tradizioni, possiede dietro di sé una lunga storia fatta non solo di popoli che hanno esplorato e poi conquistato i suoi territori, ma anche una cospicua serie di miti e leggende che affascinano e incantano.

Tra tutte le storie, come non ci si può soffermare su un famoso trittico, guarda caso come le punte del triangolo isolano, che mescola verità e fantasia? Stiamo parlando della storia/leggenda del re sicano Cocalo e degli intrecci con Dedalo e re Minosse, narrata da autori come Diodoro Siculo, Erodoto, Antioco di Siracusa.

Minosse, figlio del dio Zeus e di Europa, era giusto sovrano di Creta. Ospitò secondo la leggenda Dedalo, famoso architetto ateniese, che per gelosia uccise il nipote Talos, inventore della sega, gettandolo giù dall’Acropoli di Atene. Il mito greco narra di come Minosse fece costruire un altare in riva al mare in onore di Poseidone, dio dei mari, e di come lo pregò affinché gli inviasse un toro da potergli immolare ma, una volta esaudito il suo desiderio, il re non sacrificò il magnifico animale bianco e lo nascose nelle sue stalle.

Poseidone adirato, suscitò nella moglie del re un ardente desiderio verso la possente bestia; Minosse disperato chiese aiuto a Dedalo che fece costruire una giovenca di legno dove Pasifae, moglie di Minosse, si accoppiò con la bestia: nacque così il Minotauro, un essere metà uomo e metà animale. Disgustato dall’aspetto della creatura, Minosse ordinò a Dedalo di realizzare un labirinto dove rinchiudere e nascondere il Minotauro.

La leggenda a questo punto si divide: una versione sostiene che una volta costruito il labirinto, l’architetto e il figlio vi furono rinchiusi subito, un’altra versione vuole la loro prigionia dopo l’aiuto che Egli diede ad Arianna. Come tutti i miti infatti quella di Dedalo si intreccia con quella di Teseo e dello sfortunato amore di Arianna. Minosse in lotta con la città di Atene, dopo una poderosa vittoria a seguito dell’assassinio di suo figlio Androgeno, impose un tributo espiatorio e cruento alla città: ogni nove anni, sette fanciulli e sette fanciulle dovevano esser consegnati a Creta per esser dati in pasto al Minotauro.

Qui entra in gioco Teseo, figlio del re ateniese Egeo, che dopo esser riuscito ad uccidere la bestia ed a salvare sé stesso ed i compagni grazie all’aiuto di Arianna, figlia di Minosse, scappò con la principessa. Il racconto narra del famoso filo di Arianna che aiutò Teseo a segnare e ritrovare la strada percorse nel labirinto senza perdersi: in realtà fu proprio il furbo Dedalo a suggerire l’astuzia alla principessa. Scoperto l’inganno Minosse, fece rinchiudere Dedalo e il figlio Icaro nel labirinto per punire il tradimento. Qualunque sia la colpa, il povero Dedalo finì lì dentro, ma come narrano le fonti, l’astuzia vince sulla crudeltà: costruite delle ali con piume di uccelli raccolte lungo i corridoi e tenute insieme da cera, padre e figlio spiccarono il volo abbandonando Creta; il povero Icaro, superbo e arrogante volle avvicinarsi troppo al sole e la cera che teneva unite le ali finì col sciogliersi, decretando la morte del povero ragazzo;

Dedalo invece riuscì a raggiungere le coste della Sicilia e poi la corte di Cocalo, potente re sicano. Secondo il mito, narrato da Diodoro Siculo, Minosse per trovare il fuggitivo ricorse all’astuzia, promise una lauda ricompensa a chiunque avesse risolto un rompicapo: far passare un filo fra le spirali di una conchiglia. Il furbo Dedalo riuscì nell’impresa cospargendo la conchiglia di miele e collegando il filo a una formica che riuscì a passare tra le volute del guscio. Simbolico il richiamo tra la conchiglia/labirinto e il filo con quello di Arianna ma anche l’assonanza tra il nome Cocalo (Kokalos in greco) col termine greco per conchiglia, kochlos o kochlìas.

Minosse sbarcò in Sicilia a Minoa, città che prese il suo nome e giunto dal re sicano pretese la consegna del fuggiasco; Cocalo, dopo aver promesso di assecondare le sue richieste lo invitò a riposare nella sua reggia e a visitare gli splendidi bagni (lavorati dallo stesso Dedalo peraltro). Mentre Minosse se ne serviva, le figlie di Cocalo, violando i sacri codici dell’ospitalità, con un crudele inganno lo uccisero nell’acqua bollente o in altre versioni con della pece calda. (il termine kokaro secondo alcune fonti significa bollitore.)

Sofocle ne scrisse addirittura una tragedia. Dedalo visse a lungo in Sicilia fornendo prova delle sue abilità con poderose costruzioni, fra le quali: un’immensa piscina dove il fiume Alabosi/Alabon (Carabollace) si riversava per poi gettarsi in mare, grotte vaporose a Selinunte per guarire dei mali, imponenti mura a Erice, una possente roccaforte a Camico che divenne sempre secondo la leggenda una delle corti di Cocalo, il giardino della Kolymbetra.

Secondo altre versioni si trasferì in Sardegna, dove costruì i nuraghi, chiamati anche dedalei. Sempre Diodoro narra dell’immenso tesoro che il re cretese portò al suo seguito e della famosa tomba nei pressi di Akragas, l’odierna Agrigento, dove il re fu sepolto. Narra lo storiografo nella sua Bibliotheca Historica: “ I compagni della spedizione seppellirono il corpo in una splendida tomba a tholos ed erigono un tempio doppio, quello anteriore dedicato ad Afrodite e quello posteriore dove ripongono le ossa”.

Rimasti in Sicilia dopo che le loro navi furono distrutte dai soldati di Cocalo, i cretesi avrebbero fondato alcune colonie come Engio (Nicosia o Troina) e Minoa dal nome del loro re. Più tardi la sua tomba sarebbe stata trovata da Terone tiranno di Agrigento che fece portare le spoglie a Creta (la famosa tomba a tholos scoperta da Evans).

Alcuni studiosi ritengono che in realtà il nome Minosse designasse un titolo di dinasti, una carica governativa, e non un nome personale: forse proprio un Minosse si trasferì in Sicilia cronologicamente prima della colonizzazione greca e col tempo si sa, verità storica e leggenda si fondono.

L’archeologia ha ormai accertato che la presenza di popoli proveniente dall’Egeo, doveva esistere in Sicilia quando già in Grecia, fioriva la civiltà minoica e di scambi commerciali con le popolazioni indigene o autoctone erano assidue. A riprova del legame e della connessione tra storia e mito, alcune tavolette rinvenute nell’antica città di Pilo ove inciso vi è il nome Cocalo e le numerose tombe scavate nella roccia in stile minoico-miceneo presenti in Sicilia.

Molti si sono chiesti il luogo di questa famosa tomba, studiosi ipotizzano nell’Agrigentino, tra Santa Elisabetta e Raffadali, o Sant’angelo Muxaro, Monte Guastella o addirittura nelle Grotte della Gurfa ad Alia, vicino a Palermo ove incise fra le pareti rocciose troviamo un tridente, (un richiamo forse a Poseidone e al toro bianco?), presso Colle Madore, altro sito sicano presso Lercara Friddi o Eraclea Minoa.

Dedalica impresa invece, perdonate il gioco di parole, è l’identificazione della Reggia di Re Cocalo, molte città si la contendono: Ynicon, l’attuale Menfi, l’antica Camico con Megara Hiblea, o Omphake l’attuale Butera, Joppolo Giancaxio e non in ultimo Sciacca, che con la presenza delle stufe vaporose naturali di Monte San Calogero rievoca la morte di Minosse per mano delle acque bollenti. Proprio ivi esiste “l’antro di Dedalo”, grotte vaporose naturali con sedili scolpite in pietra.

L’infelice saga di Minosse lo vuole infine giudice infernale insieme a Radamanto e Sarpedonte o Eaco: lo testimoniano Omero, Virgilio e Dante. La storia, così radicata nella terra di Trinacria, via via e di bocca in bocca da dato col tempo origine a un racconto conservato tutt’oggi, in terra agrigentina di un certo “Re Mini”, che verrebbe a spaventare i bambini che non ubbidiscono ai genitori: “ Mini Minossi, li carni e l’ossi!”, quasi a ricordare e voler portare per sempre il ricordo di quel crudele sovrano fino alla fine dei tempi.

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