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Pigne Siciliane

La pigna in ceramica è un oggetto che fa parte della tradizione siciliana, è simbolo di fertilità, fortuna e ricchezza. 

Da sempre la pigna è un sinonimo di buon auspicio che racchiude in sé i significati simbolici di potenza, forza, vitalità, immortalità ed eternità.

Per l’abbondanza dei suoi semi era un chiaro riferimento alla fecondità e alla vitalità, la troviamo infatti quale elemento decorativo in case e ville, esposte fuori nei balconi, sui pilastri dei cancelli d'ingresso di antiche ville e giardini o in bella mostra dentro le case.

Nelle antiche tradizioni contadine, si abbelliva la camera da letto degli sposi proprio con questi manufatti, posizionati negli angoli del letto, per augurare la nascita di una prole numerosa.

Staccandosi dalla sua simbologia legata al divino o alla fertilità, ai nostri giorni la pigna siciliana costituisce un portafortuna, bel regalo adatto a tutte le occasioni: come regalo agli sposi, a chi ha appena inaugurato casa o per felicitare una nascita, inaugurare un locale o come dono per una laurea.

É e sarà sempre un regalo molto apprezzato, indubbiamente elegante e perché accompagnata da un messaggio di serenità  e prosperità  per chi la riceve.

Il ceramista plasma la creta con grande maestria per realizzare questo piccolo o grande capolavoro, con dovizia ai dettagli per ogni singola pigna siciliana, lavorata e decorata rigorosamente a mano. Si parte dalla sagoma del piede di appoggio; poi, alla modellazione delle brattee.

Infine si conclude con la decorazione: il maestro ceramista può decidere un unico colore oppure optare per più colori, per la foglia oro o caratterizzare la pigna con un astratto lavoro moderno policromo.

Non mancano però le versioni grezze in terracotta semplice o invecchiata.

Contrariamente a tante leggende del patrimonio folkloristico e culturale siciliano, la pigna non ha un mito o una leggenda alle sue spalle.

Essa sembra essere più una celebrazione  sacro-culturale a cui la Sicilia, come terra, è sempre stata avvolta.

 

 

 

Teste di Moro

Si racconta che durante il periodo della dominazione araba in Sicilia intorno all’anno 1000, a Palermo, nel quartiere Kalsa, vivesse una bellissima fanciulla. La giovane trascorreva le sue giornate in casa, dedicandosi alla cura del giardino e delle piante che lo adornavano.

Un giorno, un giovane moro, passando proprio per la Kalsa, vide la bella ragazza intenta ad annaffiare i suoi fiori, e subito se ne innamorò. Decise senza indugio di volerla per se, ed iniziò a corteggiarla in modo appassionato ed insistente.

La fanciulla, colpita da quell’ardito Moro e dal sentimento intenso, ricambiò l’amore del giovane, ma quando scoprì che aveva moglie e figli, e che l’avrebbe presto lasciata per ritornare nelle sue terre in Oriente, fu presa da un impeto di follia e disperazione: approfittò della notte e lo uccise mentre giaceva addormentato.

La ragazza gli tagliò la testa e con questa creò un vaso dove piantò del basilico. Infine lo mise in bella mostra fuori nel balcone, affinché l’uomo rimanesse per sempre con lei.

Il basilico crebbe rigoglioso, grazie alle lacrime di dolore che la fanciulla vi versava giornalmente.

Il bel basilico, e il curioso vaso destarono però l’invidia di tutti gli abitanti del quartiere che si fecero costruire dei vasi di terracotta a forma di testa di moro.

C’è anche una seconda versione di questa leggenda siciliana:  la fanciulla siciliana eroina della vicenda, in questa versione, era di nobili origini ed intraprese una relazione clandestina con un giovane arabo.

L’amore viene ben presto scoperto e i due vengono decapitati. Le teste di entrambi vennero tramutate in vasi e posizionate su un balcone, come monito affinché tutti potessero conoscere la vergogna di quell’amore. Questa versione della storia delle Teste di Moro spiega perché vengono realizzate in coppia.

La ceramica Siciliana offre svariate versioni dei vasi il Moro rappresentato in nero e la fanciulla in bianco, entrambi bianchi o neri, ma comunque arricchiti con bellissime decorazioni che raffigurano limoni, rami e foglie, frutta varia e preziosi perle e corone che in base al gusto del maestro ceramista si arricchisce della foglia oro.

Gli intensi blu, i rossi, i gialli sono un forte richiamo per comprare e decorare questi splendidi vasi che possono essere posti fuori come tradizione vuole o decorare i salotti delle case.

 

Mandorle Siciliane

Le mandorle sono un prodotto tipico siciliano, ed in generale del sud Italia, inserito dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali nella lista dei prodotti tradizionali italiani.

L’origine del mandorlo è incerto: secondo alcuni studi, nasce in Asia Orientale e viene poi diffuso dai Fenici nell’area mediterranea, che lo importarono in uno dei loro viaggi in Sicilia.

Il suo periodo di fioritura è precoce: da Gennaio a Marzo i rami si vestono dei distintivi fiori bianco rosati: sembra un sogno vedere le distese di mandorleti e i candidi petali che al loro cadere richiamano quasi una magica neve odorosa.

Il mandorlo è investito di un ruolo simbolico in molte culture: col suo sbocciare in Siria ed Israele, si inaugura la festività del Capodanno degli Alberi;

per la religione cattolica, invece, il mandorlo ha sempre identificato la promessa fatta da Dio al suo popolo: uno dei riferimenti scritti più antichi alle mandarle compare nella Bibbia, nel Libro dei Numeri, ove il bastone di Aronne produce fiori e mandorle mature.

Nell'antico Egitto e in Grecia erano frutti molti diffusi, tanto che i Romani le chiamavano "noce greca". La stessa mandorla ricopre varie ruoli: è utilizzata dai teologi come simbolo della verginità di Maria.

In passato si usava sposarsi durante la sua fioritura come augurio di buon auspicio per la famiglia.

Ma senza ombra di dubbio, come tutte la piante tipiche della Sicilia, la sua nascita è legata ad una legenda greca che, neanche a dirlo è tragica e fatale, quella della storia di Demofonte e Fillide.

L’insorgere della guerra di Troia costrinse Demofonte a partire e la ragazza, straziata dalla lunga attesa per l’amato e dal sospetto della sua morte, si lasciò morire. La dea Atena, commossa, decise di trasformare la giovane in uno splendido albero di mandorlo. Demofonte, al ritorno, abbracciando la pianta, venne ricambiato con il dolce cadere dei petali. E questo “gesto d’affetto” fra i due innamorati si ripete ogni anno: quando i fiori dell’albero al loro sbocciare annunciano la primavera.

Plutarco narra che presso i latini la mandorla era ritenuta un rimedio contro l’ubriachezza: riferisce di un medico che, ospite dell’imperatore Tiberio, sfidava chiunque a bere del vino per vedere chiavesse retto la bevanda inebriante.

Il mistero della sua perenne sobrietà fu rivelato il giorno che fu sorpreso a mangiare mandorle prima del pasto. Sotto torchio confessò che se non avesse mangiato quei frutti, anche una minima quantità di vino gli avrebbe dato alla testa.

Se il mandorlo è la pianta, la mandorla è il suo seme, commestibile.

Da essa si estrae, tramite spremitura a freddo, un olio limpido e inodore che si usa come emolliente per le pelli sensibili e secche .

Una tra le bevande più diffuse è il latte di mandorla, una bibita molto energetica ricca di vitamine del gruppo B1 e B2, magnesio, ferro e calcio, utilizzata soprattutto nelle calde estati dei Paesi mediterranei servita miscelata con acqua freschissima.

Le proprietà altamente caloriche e nutritive erano ben note anche a Carlo Magno che contribuì alla diffusione del mandorlo, perché considerato anche una pianta che donava cura.

Nel Medioevo la mandorla divenne uno degli ingredienti più usati sia nella cucina di corte che per gli afrodisiaci e i filtri d’amore. Tale successo era legato alla sua forma che richimava l’organo femminile, pronto ad aprirsi per portare alla luce il seme/frutto.

Un trattato di medicina datato XVI sec. di un certo il medico-botanico Mattioli dichiarava: "... molti le usino ne restaurativi e nelle medicine che aumentano il coito".La credenza rimase fin tutto il '700 dove le mandorle, diventarono ingrediente essenziale anche dei biscotti "restaurativi".

Regalare e mangiare confetti di mandorle in occasione di nozze e battesimi deriva proprio dal valore simbolico di prosperità collegato alla mandorla.

L’uso della mandorla nella tradizione dolciaria siciliana è essenziale e tipica: dai dolcetti secchi alle bevande alle granite ….. Del tripudio di dolci di mandorle e della loro nascita nei conventi siciliani però ne parleremo in un prossimo articolo…

Granita Siciliana

Uno dei primi dolci che vengono in mente parlando della Sicilia, soprattutto sotto il sole cocente è la granita, dolce unico e inimitabile che rende l’isola famosa nel mondo. Sotto l’ombrellone d’estate per rinfrescarsi, seduti in un bar nella piazza di un borgo, o magari da gustare dopo un’escursione, una bella granita è il ristoro perfetto.

Le sue origini risalgono agli arabi e al loro “Sherbet”, una bevanda ghiacciata al sapore di frutta e fiori, a cui i Siciliani unirono la neve dell’Etna, dei monti Peloritani e dei Nebrodi;

In estate veniva conservata nelle niviere, costruzioni concave isolate dalle calde temperature esterne grazie a mattoni, pietre e paglia, antesignane delle ove venivano ammassate grandi quantità di neve.

I ‘nivaroli’ erano attivi fin dal Medioevo: in inverno si occupavano di raccogliere la neve dalle pendici del vulcano così come dalle zone montuose, per poi trasportarlo a valle e venderlo durante i mesi caldi alle famiglie che potevano acquistare un bene allora così prezioso.

Ancora oggi, su alcuni monti, si possono trovare le buche usate per la conservazione del ghiaccio.

Al momento della vendita, il ghiaccio veniva grattato via e unito a succo di limone e di altra frutta. Era la cosiddetta ‘rattata’, l’antenata della granita.

Nel XVI sec. con l’invenzione del pozzetto, un secchiello di legno e zinco, dove la neve e il succo di frutta venivano mescolati, la preparazione venne migliorata.

Nel corso del XX secolo, la neve è stata sostituita con l’acqua ed il miele con lo zucchero, il pozzetto manuale è stato rimpiazzato dalla gelatiera, grazie al quale si  produce l’impasto cremoso, privo di aria e ricco di sapore.

Inizialmente i gusti erano limone e arancia, poi fragola, ma dall’XVII sec. in poi arrivarono anche il pistacchio, la mandorla, i gelsi, e poi in tempi recenti il cioccolato, il caffè, la menta, fico d’india, il cocomero in una sperimentazione continua che persistente anche oggi.

Può essere gustata a coppa o con la famosa ed eterna compagna: la brioscia siciliana.

La brioche col “tuppo”, è un dolce veramente squisito e soffice, dall’inconfondibile profumo, ottima se servita per merenda o colazione!

Prende il nome dalla sua forma, il “tuppo”, lo chignon basso che le donne siciliane portavano un tempo.

Tutt’oggi, gustare una granita, è un vero rito, vissuto dai siciliani come un momento di unione, di relazioni sociali, una tradizione che va condivisa prevalentemente in comunione.

 

 

 

Giglio di Mare

...Una giornata calda e afosa di luglio, il sole alto nel cielo, la distesa d’acqua cristallina davanti agli occhi…un paradiso:  il Mar Mediterraneo che costeggia carezzando le coste Siciliane. E poi, voltandosi, fra le dune dorate, in mezzo la sabbia rovente, fra sterpaglie e ciuffetti d’erba selvaggia, si erge candido e niveo un fiore….sembra una perla quasi, d’altronde siamo vicino al mare, ma che fiore è? Un giglio? Possibile mai? E in effetti, il conosciuto e meglio noto Giglio di mare in realtà non è un giglio ma una pianta del genere Pancratium, che trova vita soprattutto nelle coste mediterranee, dalla Sicilia alla Sardegna, dalle Canarie al Marocco alle coste del Portogallo, ma anche in Calabria, Basilicata, Puglia, Molise, spingendosi grazie alle mareggiate fino alle coste del Mar Morto e del Mar Nero. 


Il Pancraticum Marinum, Giglio di mare o Narciso di mare, è caratterizzato da grandi bulbi globosi che crescono sotto la sabbia, grandi foglie verde-azzurro e doppia corolla di petali; la loro fragranza e il dolce odore si diffonde principalmente durante le notti fresche, ammalia come il canto di una sirena, ma…. attenzione ai piccoli semi neri che possono trovarsi ai suoi piedi poiché sono velenosi.
La diffusione di questa pianta è dovuta non solo per impollinazione dovuta al lepidottero chiamato “sfinge del convolvolo” ma anche alla sua particolare disseminazione: i suoi semi spugnosi, una volta sopraggiunte le mareggiate, fluttuando fra le correnti marine, si diffondono lungo le coste sospinte dalle correnti e dalle onde; come in una favola greca, questa pianta delicata ma selvaggia nasconde quasi dei segreti antichi ormai dimenticati.


La sua nascita ha radici mitologiche: il potente dio Zeus, prese con sé il piccolo Heracle per nutrirlo con latte divino e lo unì segretamente al seno della moglie Hera durante il suo sonno. Il piccolo però già dai primi mesi di vita dimostrava vigore e forza: la violenza con la quale morse il seno della dea la fece destare improvvisamente che lo allontanò: da quel gesto improvviso ne uscì fuori uno spruzzo di latte che finì in parte in cielo generando la Via Lattea e un altro sulla terra da cui nacque il Giglio di mare. 
A questo punto le leggende e i miti si ampliano e moltiplicano, ma il più bizzarro è quello che vuole la consueta invidia della vanitosissima Afrodite che piena di bile per la bellezza del fiore fece crescere al suo interno i lunghi stami gialli che macchiano le dita.

Se notiamo il suo nome scientifico, Pancratium Matirimum, dal greco pan, “tutto” e cratys “potente” nasconde virtù medicinali e magiche di cui gli antichi si sono serviti, forse proprio a causa della sua nascita divina; può essere utile ricordare che nell’antica Grecia il pankraticon era una disciplina ginnica fondata sul vigore dove si mescolavano pugilato e lotta libera: simbolico se  si pensa alla forza di questo sport e la resistenza del fiore.
Ai tempi di Plinio il Vecchio (23–79 d.C.) il nome Pankrátion era stato usato genericamente per descrivere alcune specie vegetali costiere aventi proprietà farmaceutiche soprattutto facoltà lenitive, usata dai marinai per rinfrescare la pelle dalle scottature solari. La radice invece cotta nel grasso e nell’olio era utile nei casi di bruciature di peli e capelli.
Secondo Galeno invece era un rimedio contro la bile nera.

I bellissimi e odorosi fiori dagli appariscenti petali perlacei, sono generati da un bulbo che cresce e trova riparo sotto le dune, ma come tutti i più delicati fiori, se pur selvaggi per natura, il Giglio è una specie protetta, tanto che la sua raccolta è proibita. 
Un “omaggio” della natura poco gradito da alcune amministrazioni comunali che, omissive rispetto alla salvaguardia di questa rarità botanica, dispongono ogni estate una indiscriminata pulizia delle spiagge a colpi di mezzi meccanici.


Per questo motivo è nato Natura2000, uno strumento della politica dell'Unione Europea per la custodia della biodiversità. Si tratta di un progetto esteso su tutto il territorio dell'Unione, nato per assicurare la difesa a lungo termine degli habitat naturali e delle specie di flora e fauna minacciati o rari.


Curioso è tutt’oggi il suo utilizzo, sarà perché si è attinto alle vecchie fonti, o alle credenze di natura mitologica - divine, Giglio di Mare è coltivato in serre da laboratorio da alcune moderne case di cosmesi e da esso viene estratto, un principio attivo per la riduzione della pigmentazione della pelle causata da stress e avanzamento dell’età.

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